ELOGIO DELLA GENTILEZZA
In questo periodo così delicato, nell’ambito delle relazioni di cura c’è tanto bisogno di gentilezza. Oggi più che mai, è forte l’esigenza di una medicina più attenta ai bisogni delle persone, in cui vi sia anche un tempo da dedicare all’ascolto e all’empatia: una prospettiva che consideri non solo di “curare la malattia” ma anche di “prendersi cura” delle persone.
Nel fare valutazioni sull’adeguatezza delle cure è importante considerare anche i fattori umani, come la gentilezza appunto, perché in grado di incidere positivamente sulla qualità delle pratiche di cura e assistenza.
Il tema della gentilezza è l’oggetto di una bella riflessione a cura del direttore sanitario di FILE, lo psicologo Iacopo Lanini, tratta dal suo ultimo libro “Ante-Post-Vitam” (Pontecorboli Editore).
«In un luogo dove siamo abituati a sentire odore di disinfettante, vedere linoleum come pavimento, apparecchi in tinta bianca appesi, circola nell’aria un’importante forma medicamentosa chiamata “gentilezza”.
Questa condizione, che più che una virtù sembra essere un “habitat”: se respirata in un contesto di sofferenza può circolare e diffondersi quasi magicamente e certamente più di quello che si pensi; essa può costituire una medicina capace di snellire ogni aria di complessità, di lenire i dolori più atroci ed apportare beneficio ad altre importanti magagne proprie della vita delle persone.
La gentilezza è sicuramente una delle forme più invisibili di relazione alle quali assistiamo in ambito sanitario, in quanto corre veloce attorno ai comportamenti degli operatori, alle richieste dei degenti e alle manifestazioni di gratitudine che le persone assistite hanno verso chi si prende cura di loro.
In questi contesti la gentilezza non riguarda soltanto quei “gesti carini” o certe attenzioni speciali, ma costituisce una dinamica relazionale dal valore altissimo che può arrivare a determinare perfino la buona riuscita di una comunicazione, lo stabilirsi di un patto terapeutico o la risoluzione di intrecci e conflitti venutisi a creare tra colleghi o con i pazienti ed i familiari.
La gentilezza non può essere considerata come uno strumento tecnico da usare nella relazione terapeutica, è qualcosa che deve nascere dalle stesse persone per raggiungere altre persone; essa non necessariamente si identifica con un gesto e neppure deve esprimersi a parole. La gentilezza alla quale ci riferiamo potrebbe essere assimilata ad una riflessione sulla condizione umana; nell’esatto momento in cui una persona (che sia paziente o curante) o perfino un intero contesto (realtà ospedaliera o famiglia) si misurano con un momento di importante difficoltà clinica, umana o relazionale, le “difese” fisiologicamente possono risentirne, riducendosi ed uscendone provate.
La gentilezza, dunque, sarebbe un’arma di contenimento e di limitazione della brutalità della malattia e dei dolori provati; in questi frangenti la persona può davvero arrivare a pensare di non farcela ed è per questo che chiunque si trovi in una simile condizione sembra incessantemente cercare appigli, riferimenti, contatti, volti da conoscere e riconoscere e soprattutto “buone maniere” per snellire tutto il proprio grigiore.
La gentilezza, in questi casi, esercita anche una funzione molto importante a proposito della paura anticipatoria della perdita e può portare ristoro, sollievo e conforto a fronte del timore di doversi distaccare dal proprio benessere abituale (sviluppando dei sintomi), dalla vita condotta fino ad oggi (entrando in una condizione di malattia) o perfino dalla vita stessa (lutto anticipatorio).
Ed è con queste finalità che la gentilezza può aggirarsi per i reparti e che le persone al loro interno possano cercarla, desiderandola e facendosi inebriare, forse anche per trovare “qualcuno” che li guidi all’interno di questo contesto per loro nuovo e, soprattutto, subìto a fronte della malattia che li ha condotti lì.
Le gentilezza si esprime molto bene anche in un altro concetto, quello di non vivere in modo generico le esperienze altrui, perché in fondo, sentendo i commenti delle persone che stanno in ospedale, si capisce che il loro “bene” è quando un operatore non assimila un paziente ad altri, con problemi affini ma non identici, con sintomi prevedibili ma non sempre presenti allo stesso modo.
In un contesto affollato come quello ospedaliero la gentilezza può considerarsi come un elemento divulgativo e contagioso, perché davvero ci sono professionisti che, nel luogo nel quale lavorano, riescono a portare un clima nel quale le persone assistite si riconoscono davvero.
Perché, in fondo, gli operatori dovrebbero essere lì per questo, per manifestare rispetto nei confronti delle difficoltà personali cui pazienti e familiari sono sottoposti, dovrebbero essere educati e non travalicare mai i limiti del garbo e della cortesia.
Per me è stato molto bello visitare, frequentare e assistere a dei contesti clinici nei quali la propensione ai bisogni del paziente era addirittura diventata un elemento di competitività tra i vari operatori sanitari, non come oggetto di meritocrazia, bensì come realizzazione della speranza di uscire ogni giorno, nel modo migliore e tutti insieme, pazienti e curanti, dalle complessità, dalle fatiche e dallo sconforto prodotti dal male e dalla malattia».