Sì, la Loredana è morta, la mia mamma ha esalato l’ultimo respiro. Non saprei definire se respiro o soffio, io ero lì, se fosse successo due minuti prima sarebbe stata sola, ma non è questo che avrebbe fatto la differenza.
La prima reazione è stata di scuoterla, “Mamma, Mamma”… Come se chiamandola la richiamassi in vita. Poi ho realizzato, ho chiamato Laura, la “quasi-figlia” (in questo caso, chiamarla “badante” è inappropriato e riduttivo), che per nove anni ha accudito, confortato, abbracciato e bisticciato con la mamma; e per l’ultima volta l’abbiamo pettinata e vestita.
Non so che cosa sia stata per la mia mamma, però so che lei ha amato tantissimo la vita che, contrariamente a quanto pensava in piena salute: “Se mi infermo fatemi morire”, lo spirito di conservazione, la capacità di resistere alla sorte e di trovare il meglio che la vita poteva offrirle l’ha portata a vivere con il sorriso sulle labbra la sua infermità. La mamma è rimasta una donna forte, generosa e accogliente, affettuosa e gentile con tutti.
La rabbia, la non accettazione per la situazione davvero terribile nella quale la malattia l’aveva relegata, castigo disumano – costringere una mente ancora attiva e presente in un corpo che non risponde agli stimoli, ai movimenti e soprattutto la perdita della parola – sono state la costante del primo periodo, era angosciata dal non poter parlare, interloquire, esprimersi, il rifiuto di vivere era quotidiano e fortissimo e per lungo tempo l’ha bloccata.
Poi: tornare nel suo ambiente, la casa, le sue cose, la rete familiare, io e mio marito, la presenza costante e rassicurante di Laura. Il nostro amore, quello del nipote lontano, dei parenti, pochi, perché non siamo una grande famiglia, hanno spinto la mamma a vivere al meglio. Tutto questo ha fatto la differenza.
La sua tenacia, oserei dire la sua caparbietà, è stata determinante in molte situazioni, la sua intelligenza e la sua sensibilità hanno reso meno difficile anche per noi starle accanto negli anni.
Era felice di ogni lieve recupero di autonomia, fosse anche portare da sola il cibo alla bocca, o con una sola mano piegare un tovagliolo, controllava che tempo faceva preoccupandosi se Laura era uscita senza ombrello, quando tornava la domenica voleva sapere se si era divertita o cosa aveva mangiato; se Roberto, suo genero “il principe” stava bene e magari aveva cambiato il suo turno di assistenza solo per impegni che lo gratificavano, capire dal tono della voce del nipote, al telefono, se le cose andavano bene; e tutto a cenni, a sguardi, in un linguaggio tutto nostro che ormai funzionava quasi alla perfezione.
Ha funzionato così tanto che, quando si è resa conto che il suo corpo si era indebolito tantissimo, che la sua mente non riusciva più a seguire neppure le letture, che le facevamo, delle fiabe o del suo amato Camilleri, di non avere voglia di vedere quello che accadeva nel mondo, seguire le notizie in tv, quando si è accorta che la sua vita era diventata sofferenza, agitazione, dolore diffuso, ha iniziato a mollare, a chiudere sempre più spesso gli occhi, a isolarsi.
“Mamma, ti fa male la pancia?” Scuoteva la testa in segno negativo, “Ti fa male la schiena?” No, “Senti dolore a urinare?” No, “Respiri male, il cuore fa le bizze?” No, “Ti fa male la testa?” Non era né sì né no, era un dolore generico, il “male di vivere”.
Le notti erano diventate lunghe e senza riposo, fatte di mugolii insistenti, di appelli a “Lauaaa“ a Laura, di appelli alla “mama”, uniche parole che ogni tanto riusciva a pronunciare, notti fatte di paura di stare sola e di non rivedere l’alba.
È qui che chi sta attorno, chi è solo e disarmato non sa più cosa fare. La stanchezza dei nove anni di vita organizzata in funzione del garantire una buona qualità a lei si sono fatti sentire tutti, sono diventati un macigno che rischiava di schiacciarmi, di farmi pensare di aver costretto me stessa e tutta la famiglia in un’impresa che non aveva fine e che aveva reso tutti snervati, fragili, infelici, mi sembrava di ostinarmi a far vivere una di 92 anni a discapito delle nostre vite.
Il medico di famiglia, giovane medico, al quale va il mio grazie, ha capito che il dolore in certe situazioni non si manifesta con problemi organici specifici, ma con agitazione ansia e diffusa sofferenza, ha iniziato con dei cerotti di antidolorifici che finalmente hanno reso accettabili le nottate, e lenito le angosce del giorno.
La situazione di salute si è stabilizzata ed è iniziato il percorso con la presa in carico da parte del servizio domiciliare di Cure Palliative di File e Azienda Sanitaria.
Con un cenno del capo, invitava a sedere e, mimando con la sinistra il gesto di bere da una tazzina, invitava a prendere un caffè, magari con aggiunta di un dadino di cioccolata.
È qui che fa la differenza, condividere problematiche e sofferenze che da soli non riusciamo a gestire. Il servizio domiciliare, nel nostro caso, ha permesso di mantenere la mamma a casa nel suo ambiente, ed è stato una buona cosa, anche se forse il nostro impegno in presenza fisica a casa è aumentato e anche le nostre ansie.
“Saremo all’altezza? Faremo la cosa giusta? Respira peggio, avrà dolore, urina meno, cosa succederà?” Interrogativi che erano all’ordine del giorno, o meglio, dell’ora e dell’attimo…
Laura, la badante, non aveva assistito in nessuna sua precedente esperienza lavorativa un anziano a casa fino alla fine e quindi era piena di dubbi e di timori, aggiungeva la sofferenza per la perdita di una persona che ha amato tanto, alla quale si era sinceramente affezionata alla paura della perdita imminente del lavoro.
Io ero in una centrifuga di paure, di sentimenti contrastanti passavo dalla rabbia per la cattiveria della sorte che si accaniva sulla mamma, di un corpo che sembrava non lasciarla andare via, mentre io avrei voluto accelerare questo percorso per diminuire il mio dolore più che il suo, dal momento che lei non dava segni di sofferenza, passavo poi al bisogno di dolcezza di volerle dare un ultimo abbraccio e un’ultima carezza.
Così, fondamentalmente io e Laura, abbiamo preso il coraggio, a costo di sembrare imbranate e sprovvedute, di alzare spesso la cornetta e chiedere cosa fare, o chiedere spiegazioni descrivendo cosa stava succedendo. La risposta era immediata, un medico ci rispondeva sempre, con una gentilezza, una calma e una vicinanza umana che non avevo trovato mai prima.