Ho saputo dell’esistenza di FILE nell’autunno del 2011 mentre all’Hospice di Torregalli aspettavo che mio marito venisse visitato dal dr. Tempestini. Nella bacheca c’era un volantino con l’indicazione di un gruppo di sostegno al lutto, gli incontri avvenivano il lunedì nella sede di Via S.Niccolò. Erano i giorni in cui il tumore ai polmoni di mio marito era stato diagnosticato in tutta la sua gravità ed entrambi eravamo consapevoli di quello che sarebbe successo. Lessi e per un attimo pensai che . . . ne avrei avuto bisogno.
Sì, per la prima volta avrei avuto davvero bisogno di un appoggio e, pur avendo svolto per tutta la vita una professione d’aiuto, questa volta sarei stata io a chiedere… Fu un attimo, scacciai il pensiero ma, con quella intuizione che nei casi dolorosi diventa consapevolezza, non dimenticai l’informazione.
Quando l’8 marzo del 2012 Marco ci ha lasciati, non avevo dubbi su quello che avrei fatto. Già in aprile telefonai alla segreteria di FILE e fui subito ricontattata dalle facilitatrici dell’unico gruppo di auto mutuo aiuto (GAMA) allora attivo.
Non ero contenta di aver chiesto aiuto, non ero abituata, ero confusa, non sapevo se mi avrebbe fatto bene quella esperienza, ma andai lo stesso al primo incontro del gruppo e, nonostante l’accoglienza di tutti, quando uscii non ero sicura che sarei tornata.
La mia testa consigliava di farmi aiutare, il mio cuore voleva solo quello sguardo che aveva accompagnato con amore la parte più lunga della mia vita. È stata in seguito l’intelligenza del cuore che mi ha fatto trovare in quel gruppo (dove sono tornata e che, idealmente, mi accompagna ancora) una motivazione forte a riprendere in mano il mio percorso.
Dopo più di un anno di frequentazione, si è reso necessaria la formazione di un nuovo GAMA, così mi fu chiesto di cominciare la facilitazione dopo il corso di formazione come volontaria FILE.
Sono, ormai, 10 anni che FILE fa parte della mia vita e, indirettamente, anche di quella della mia famiglia, delle amiche, degli amici e delle persone che incontro per lavoro. FILE è la mia comunità di riferimento privilegiata, quella in cui lo scambio e la condivisione restano la sostanza che, oltre agli affetti, la vita continua a regalarmi.
Ma parliamo un momento dei gruppi di auto mutuo aiuto, delle persone che vi partecipano, del dolore e dei vissuti che vengono condivisi.
Spesso i partecipanti non si chiedono neppure se ce la faranno a riprendere in mano un’esistenza dove sia di nuovo possibile trovare uno spazio e un tempo in cui ricollocarsi. Però sono arrivati al gruppo e cercare gli altri vuol dire, al tempo stesso, scoprirsi fragili e aver fiducia in un possibile scambio. Cominciano a parlare e ad ascoltare: all’inizio non sanno neppure cosa sia giusto o buono scambiare, sanno soltanto che ci vuole uno spazio a parte per il dolore.
“Dopo la sua morte mi è sembrato di viaggiare in una terra straniera”
Frasi come questa, o con lo stesso significato, sono ricorrenti. “Terra straniera” è diventata la consuetudine quotidiana: luoghi, oggetti, incontri apparentemente sono gli stessi, ma non sono più vissuti come “prima”. Prima che il dolore li rendesse estranei, prima che quell’assenza, quella mancanza, trasformasse una geografia domestica in un vuoto irriconoscibile.
“Ho perso una parte di me”.
Altra frase ricorrente che segnala una vera e propria mutilazione interiore. Vuol dire che non è più possibile esistere insieme, unire la vita, sentirla plurale.
“Se quegli occhi non mi guardano più, chi sono io? Cosa diventerò?”
Lo straniamento spesso non si riferisce solo al presente ma getta ombre sul futuro immaginato privo del nutrimento che arrivava dal legame.
“Fuori c’è troppo chiasso, fuori c’è troppa indifferenza”.
Molti sentono il bisogno di raccogliersi, di stare fermi e di soffrire sì, di soffrire in pace. Ma non da soli. Nel gruppo ci sono sorelle e fratelli feriti come noi. Il legame è proprio il dolore, diverso in ciascuno ma di una matrice comune.
Il gruppo accoglie il dolore, non fa altro, almeno all’inizio, ma fa quello che il “fuori” non può fare.
Ognuno racconta e si racconta e per tutti le parole diventano lentamente una mappa, quella che il “fuori” non può disegnare, quella che serve per riprendere un orientamento. Le narrazioni di ciascuno sono una carta geografica imperfetta e ingarbugliata, ma anche una traccia fedele di come chi racconta si stia muovendo nella “sua” terra straniera, con le “sue” mutilazioni, con il “suo” dolore. E gli altri lo ascoltano, vedono il suo percorso, lo seguono, le parole diventano segni, luoghi, definiscono un cammino.
Così ciascuno può pian piano cominciare a confrontare la propria geografia personale con quella degli altri e scoprire che in realtà non è fermo. Non si è mai fermi, magari siamo indietro rispetto a come vorremmo, o a come pensiamo che siano i nostri compagni di strada, ma in questo confronto passa un movimento che ci permette di trasformare il dolore. Quel dolore che pietrificava.
Sono le parole che salvano il dolore perché hanno un corpo fluido, gli permettono di circolare ed entrare in contatto con la materia, la stoffa degli altri. Così il dolore viene salvato. Salvato sì, e non è un paradosso. Il dolore non si spenge, non se ne va, ma può lasciare posto a un sentimento commosso e partecipato nel quale la consapevolezza del vissuto con i propri cari scomparsi si fa più composta, meno lacerante. Salvato in questa forma, il dolore consente a chi resta una ripresa della propria vita, pur nell’assenza.
Nei nostri gruppi la presenza dei facilitatori è intesa a creare una sorta di corpo unico che si sintonizza sull’esperienza di perdita di ciascuno senza tuttavia sostituirsi alla persona in lutto con ricette e consigli. Perché l’aiuto migliore è far leva sul guaritore che è in ognuno di noi.